Memoria #4 Nonna Concetta
Un racconto su mia nonna Concetta – a cui devo metà del mio nome, e molto di più –, attraverso la memoria dei suoi oggetti
Era un pomeriggio di settembre. Sono entrata nella casa di mia nonna Concetta e quello che ho provato lo sa bene chiunque entri nella casa di una persona cara che non c’è più. Quella casa, che avrebbe dovuto essermi familiare, mi disorientava nel suo essere così vuota e allo stesso tempo piena di cose ormai inutili, di oggetti che non servivano più a niente: la caffettiera non più sui fornelli sempre accesi, la televisione spenta, la poltrona con i fiori vuota, il telefono Sirio silenzioso, i ferri per la maglia e l’uncinetto fermi, la spianatoia senza farina.
Era la fine di qualcosa, una vita.
In soggiorno davanti a me la macchina da cucire. Me la ricordavo bene mia nonna seduta lì a cucire i suoi vestiti e quelli dei suoi nipoti: il piede sul grande pedale in ferro decorato, i cassetti da cui tirava sempre fuori un bottone o un ditale, la manopola che faceva girare con la mano destra e poi quel rumore continuo: tutututututututututututututututututu.
E proprio seduta lì, su quella macchina da cucire, mia nonna mi ha insegnato molte cose: come attaccare un bottone su una camicia, rattoppare una calza bucata o fare l’orlo ai pantaloni troppo lunghi.
Mi ritornava alla mente tutto e non volevo dimenticare niente.
Ma oltre i ricordi che quell'oggetto rievocava in me, potevano essercene altri? Quella macchina da cucire poteva raccontarmi qualcosa che non sapessi già, qualcosa della vita di mia nonna prima di me?
Era l'inizio di qualcosa, il ricordo di una vita.
Concetta ha imparato a cucire da bambina: era una discepola di Teresa Martino ed era stata sua madre ad accompagnarla a "imparare il mestiere" perché voleva metterla in riga. Era una bambina trist, diceva, che in dialetto santandreano, dal paese dove è nata e cresciuta, non si traduce letteralmente con “triste”, anzi, il significato rimanda a qualcosa di molto lontano dalla tristezza: significa piuttosto essere in gamba, coraggiosi, spavaldi, indipendenti. Ma per una madre che cresce sette figli negli anni '40, può significare anche avere molte preoccupazioni. Affidare Concetta a Teresa significava insegnarle disciplina, darle un compito quotidiano, acquietarla, e anche fare in modo che trovasse presto la sua strada.
Concetta quasi tutti i pomeriggi andava a casa della sarta Teresa, era brava e imparava in fretta, c'era solo un piccolo problema con la disciplina. E un giorno mentre la maestra le stava preparando una gonna per un'occasione speciale, lunga fino a sotto il ginocchio com’era appropriato per una ragazza dell’epoca, Concetta pensava che non aveva nessuna intenzione di indossarla, non in quel modo almeno. Così, tornata a casa, aveva preso le forbici e tagliato la gonna della lunghezza che voleva – "ora si iniziano a portare così le gonne, corte".
Era una bambina trist.
Intanto era diventata una donna e aveva imparato che saper cucire era una delle qualità che ti facevano trovare più in fretta marito: nella dote era infatti specificato se sapevi cucire, rammendare o ricamare. Nel 1954 Concetta aveva 23 anni e si era fidanzata con Nicola, lei sapeva fare tutto ed era pronta a lasciare la casa dei suoi genitori, ma desiderava farlo nel modo più indipendente possibile: sapeva cucire, e bene, ma per fare in modo che quello diventasse un lavoro aveva bisogno di una macchina da cucire, che non poteva permettersi.
Così le venne in mente un piano: chiese al promesso sposo Nicola, che aveva già ricevuto e accettato la dote, di minacciare i futuri suoceri di non volerla più sposare, se non avessero aggiunto alla dote una macchina da cucire. I genitori di Concetta non potevano rischiare di far fallire il matrimonio, lei era già troppo grande per non essere sposata, così fecero di tutto per trovare i soldi che servivano a comprare quella macchina. Era una macchina da cucire Necchi.
Storie che non conoscevo della vita mia nonna – e della sua identità – le ho scoperte grazie alla sua macchina da cucire, altre attraverso le sue pagelle scolastiche, altre ancora con le cartoline che spediva dal Venezuela, dove ha vissuto per anni con suo marito cercando, come molti italiani all’epoca, un futuro migliore.
Queste storie, raccontate un oggetto alla volta, mi hanno fatto conoscere una bambina coraggiosa e un po’ orgogliosa, una ragazza premurosa e caparbia, una donna intelligente, una moglie speranzosa, una madre combattente.
Sopra ogni oggetto di cui nonna Concetta si era circondata, strato dopo strato si era depositata la profondità della sua storia: accettare la fine dell’utilità di quegli oggetti mi ha permesso di accogliere la loro nuova natura evocativa. E così ogni singolo oggetto si è trasformato in ricordo, la casa in un archivio personale concluso pronto a sprigionare il suo potere: dare continuità a un’esistenza.